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IL GIORNO CHE AVREI VOLUTO VIVERE

Le lacrime per Caruso al Metropolitan

di Gigi Garanzini

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20 Agosto 2009

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Anche perché per lui, napoletano verace, quella piccola Napoli made in New York non solo rappresentava ma, meglio ancora, sostituiva l'originale. L'aveva giurato, due anni prima: per quanto l'amasse, nella sua città non avrebbe cantato mai più. Ma qui siamo già all'indomani del giorno che avrei voluto vivere, all'appendice del sogno. All'intervista che avrei provato a chiedere a Caruso tra una romanza e l'altra e lui, saputo che il militare l'ho fatto all'Arenaccia, non mi avrebbe negato. Sarei partito dai debutti. Senza bisogno di ricordargli che non sempre era andata come al Metropolitan.

Seduto al bar dell'albergo in cui era sceso, il Knickerbocker, aspirando un'americana senza filtro da un lungo bocchino e tracciando su un grande notes una caricatura dopo l'altra, specialità in cui eccelleva, avrebbe sorvolato, immagino, sul più lontano e difficile, quello da diciottesimo figlio di un fabbro male in arnese. Avrebbe raccontato degli esordi canori nelle chiese intorno ai dieci anni, del contemporaneo apprendistato in un'officina meccanica, delle prime serate intorno ai quindici nelle rotonde sul mare dell'epoca. Per poi, dopo i primi studi di canto e il servizio militare, arrivare al debutto assoluto a 21 anni, al teatro Nuovo di Napoli, in un'opera minore, l'Amico Francesco di Morelli. Buono, non esaltante. Seguito da esperienze di difficoltà via via crescente in piccoli teatri di provincia, con il Faust, la Cavalleria, il Rigoletto. Sino ad illudersi di aver già tagliato il traguardo con il grande successo in Fedora al Lirico di Milano, che gli spianò la strada alle prime grandi trasferte, San Pietroburgo, Buenos Aires, Londra.

A quel punto, sfogliando i giornali che a caratteri di scatola lo consacravano, sarebbe stato più facile tornare alle due mazzate. Recenti, inattese, crudeli. Ma forse anche formative, che ne dice, maestro? La prima al debutto alla Scala in Bohème, con Toscanini sul podio. Febbricitante, teso, ma soprattutto furibondo con quel direttore dispotico che aveva preteso il canto a voce piena durante tutte le prove, non solo alla generale, finendo per stancargli la voce. Non un fiasco, ma una performance che aveva deluso le attese. Il tempo di una grande rivincita nell'Elisir d'amore, sempre alla Scala, sempre con Toscanini che trovò la frase per farsi perdonare («Per Dio, questo giovane tenore canta come un angelo»), ed ecco invece lo stesso Elisir accolto con grande freddezza e qualche fischio di troppo proprio dove Caruso avrebbe dato l'anima per trionfare. Al San Carlo, nella sua città, dove il pubblico adorava il vecchio tenore-maison, Fernando De Lucia, che sarebbe come se al San Paolo avessero fischiato Maradona per rispetto a Totonno Juliano. Ma davvero lei non canterà mai più nella sua Napoli, avrei chiesto quel 24 novembre 1903 ad Enrico Caruso?

Nel tempo gliela fecero in tanti, quella domanda. La risposta fu sempre la stessa. Gli chiesero anche, da lì a qualche anno, che cosa pensasse dello sbarco di Toscanini al Metropolitan, come direttore artistico. Eravamo ormai nel 1908, e lui che da cinque anni, dalla sera del Rigoletto era del Met il re indiscusso si tenne sull'evasivo: ma la sua prima reazione era stata di rompere il contratto, e ci volle del bello, del buono, e ovviamente del cospicuo, nel senso dei quattrini, per costringerlo alla convivenza con quell'altro mostro sacro della lirica. Alla fine, per fortuna del Met e della musica, fu il linguaggio del talento superiore ad averla vinta sulla focosità dei caratteri.
Caruso cantò da padrone di casa al Metropolitan sino al 24 dicembre del 1920, pochi mesi prima di morire. È sepolto a Napoli, alla Doganella, a poca distanza dalla tomba di Totò. Una visita in punta di piedi, preceduta e seguita dal riascolto della sua voce inimitabile, è un giorno che si può ancora vivere.


SUCCESSI E DOLORI DI UNA VITA
Napoli mon amour
Enrico Caruso nacque a Napoli il 25 febbraio 1873, 18° figlio di un fabbro, morì nella sua città natale il 2 agosto 1921. Tra il 1902 e il 1920 incise 250 facciate a 78 giri, che gli fruttarono circa 500mila lire dell'epoca. Considerato la più bella voce di tenore di sempre, ha cantato tutto il grande repertorio, da Verdi a Puccini, Donizetti, Bellini, i veristi, fino alle romanze da camera, oltre ovviamente al repertorio della canzone napoletana.

Un timbro unico
Nel 1909 fu operato alla gola per una laringite ipertrofica nodulare. Da allora la sua voce acquisì un timbro ancora più brunito, con un ampliamento ulteriore dei suoni centrali assolutamente eccezionali per un tenore. Al punto che in una recita di Bohème a Filadelfia, nel gennaio del 1916, cantò, oltre alla sua parte di tenore, anche la romanza del basso («Vecchia zimarra») colpito da un improvviso abbassamento di voce. La sua ultima performance fu l'Ebrea di Halevy al Metropolitan il 24 dicembre 1920.

L'amore e la malattia
Gravemente ammalato, subì un'operazione al polmone sinistro mentre era in tour. Dopo una lieve ripresa ebbe una ricaduta e non poté finire il viaggio verso Roma per subire un nuovo intervento chirurgico: il male lo fermò in una delle stanze dell'albergo Vesuvio a Napoli, dove morì a soli 48 anni. Ebbe due figli dalla prima moglie, il soprano Ada Giachetti conosciuta a Livorno in una Traviata del 1897, e una da Dorothy Benjamin, sposata a New York nel 1918. Ada fu il suo grande amore ma anche il suo grande dolore: lo lascerà dopo 11 anni di matrimonio per fuggire con l'autista, con il quale cercherà anche di estorcergli denaro. La vicenda finirà in tribunale, con la Giacchetti condannata a tre mesi di reclusione e a 100 lire di multa.

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20 Agosto 2009
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